Tassare la carne può salvare il pianeta?
Dall'università di Oxford arriva una proposta che fa discutere

Recentemente sono stato ospite del programma di Tv2000 “Il Mondo Insieme” dove con Licia Colò è nata un’interessante discussione in merito alla proposta di tassazione della carne e del latte. Nelle ore e nei giorni successivi alla puntata ho ricevuto molti messaggi (mail, whatsapp, FB, ecc.) di consumatori che mi ponevano domande sull’argomento trattato. Al fine di fornire maggiori informazioni a queste persone e per informare della questione chi ancora ne è all'oscuro ho quindi voluto approfondire l'argomento.
A fine 2016 un gruppo di ricercatori dell’università britannica di Oxford ha pubblicato uno studio nel quale proponeva la tassazione del 40% sulla carne e del 20% sul latte per ridurre le emissioni di CO2 (principale gas serra) e al contempo salvare circa 500 mila vite all’anno grazie ad una dieta più sana. Questo studio ha alzato un polverone a livello mondiale perché ha suscitato le ire degli allevatori, dei rivenditori di carni e dei consumatori 'carnivori' ma anche le esultanze degli ecologisti, degli agricoltori bio, dei vegetariani e dei vegani.
Il tutto nasce dal preoccupante progredire dell’effetto serra, fenomeno atmosferico per cui la Terra trattiene nella propria atmosfera parte dell’energia radiante proveniente dal Sole. Questo fenomeno è facilitato dalla presenza di specifici gas serra come l’anidride carbonica (CO2) e il metano (CH4). L’effetto serra sta innegabilmente portando il nostro pianeta a dei cambiamenti che stanno già influenzando l’ambiente e la salute degli esseri viventi e che sono principalmente:
- incremento delle temperature. Dalla fine dell’Ottocento a oggi il nostro pianeta si è riscaldato in media di circa 0,85°C ma in alcune aree, come nell’Antartide, si è registrato un riscaldamento di quasi 9°C;
- le superfici idriche (mari, laghi e fiumi), a seguito dell’innalzamento termico, determinano un incremento dell’evaporazione che causa l’aumento dell’umidità dell’aria e quindi la percezione che abbiamo del caldo;
- fusione dei ghiacciai e conseguente crescita del livello dei mari;
- variazione della concentrazione salina dei mari, per le maggiori piogge e per la fusione dei ghiacciai che danneggia gli ecosistemi idrici;
- acidificazione dei mari (per l’aumento della CO2), con conseguenze su animali e vegetazione;
- minore acqua dolce da destinare ad uso potabile, cioè al consumo umano;
- molto più caldo nelle aree metropolitane (cioè nei centri abitati);
- maggiori incendi spontanei;
- maggiore probabilità di eventi climatici estremi (tifoni, ecc.);
- aumento della desertificazione;
- maggior rischio per la salute umana (per l’inquinamento dell’aria, infezioni, ecc.);
- invasione di specie aliene (come il pesce Palla nel mar Mediterraneo) ed estinzione di altre specie per invasione di competitori e sofferenza ambientale.
Insomma, se non si attuano dei cambiamenti urgenti, costanti e radicali che vadano oltre le inutili dichiarazioni e promesse, gli specialisti prevedono un futuro buio. Cambiare si può e si deve per permettere alle risorse ambientali di arrivare alle future generazioni. Ma come? Tra le possibili soluzioni all’effetto serra vi sono l’uso delle energie rinnovabili, gli accordi internazionali (come il Protocollo di Kyoto che impone una riduzione dell’uso dei combustibili fossili), l’aumento delle auto elettriche, gli investimenti green (come le obbligazioni verdi o “green bond” che permettono di investire i propri risparmi in cause ambientali), la riforestazione, ecc. Ovviamente tutte queste soluzioni, per permettere una risposta più vigorosa, andranno esaminate e attuate simultaneamente dai vari governi e quindi perseguite da tutti noi.
Tra le cause dell’effetto serra, oltre ai trasporti, alle attività industriali e al riscaldamento degli edifici, vi è anche il grande numero di animali – soprattutto bovini – allevati per ricavarne carne e latte per gli esseri umani. Una una vacca, infatti, produce in media circa 200-300 litri di metano e anche tanta CO2 al giorno. Appare quindi evidente che tra le soluzioni per ridurre l’effetto serra vi sia anche la diminuzione del numero di animali allevati (principalmente la riduzione degli allevamenti intensivi) e di conseguenza la diminuzione dei consumi di carne (e dei suoi derivati quali i salumi, insaccati, ecc.) e di latte (e dei suoi derivati: formaggi, ecc.) che si può ottenere proprio con la proposta di tassazione di questi alimenti secondo il principio per cui “più costeranno, meno si consumeranno”.
La proposta dell’università di Oxford di tassare la carne e il latte è realmente una strada percorribile? Secondo molti, me incluso, per poterlo essere la tassazione dovrebbe essere globale – situazione molto difficile a verificarsi – e non interessare solo alcuni Paesi. Va anche detto che negli Stati industrializzati, soprattutto in Europa, si sta già verificando una contrazione dei consumi di carne e dei suoi derivati a seguito della maggiore consapevolezza dei rischi che si possono correre a causa di un consumo costante ed eccessivo di carne. Invece nei Paesi emergenti, come Cina, Brasile, India e Russia, che coincidono con le aree geografiche con maggiore densità abitativa, a seguito della crescita economica il consumo di carne è in forte aumento. In queste realtà consumare carne, da sempre considerata un alimento per ricchi, è diventata una forma di riscatto sociale, una sorta di rappresentazione del proprio status economico.
In altre parole, la riduzione dei consumi di carne in una porzione del mondo poco abitata – Europa – non serve a diminuire la produzione di gas serra se in altre aree, quelle più abitate, i consumi di carne sono in crescita.
Oltre a ciò va precisato che, imponendo la tassazione, solo le fasce di popolazione indigenti ridurrebbero i consumi di carne e di latte a discapito del cosiddetto jank food (cibo spazzatura: patatine fritte, wurstel industriali, merendine, bibite gassate, ecc.) altamente nocivo per la salute perché ricco di sale, zuccheri, acidi grassi saturi, grassi trans, coloranti, conservanti, aromi di sintesi e spesso eccessivamente lavorato, che sicuramente i nostri nonni di certo non riconoscerebbero come cibo. Le fasce di popolazione economicamente agiate continuerebbero invece a consumare carne.
In un momento di crisi economica costante, come questo che stiamo vivendo, tassare alcuni beni primari, come il cibo, sarebbe giustamente interpretato dalla popolazione come una sorta di 'crudeltà'. Inoltre non sempre la tassazione conduce a una riduzione di consumo di un bene: pensiamo al tabacco (sicuramente un bene non primario e non indispensabile alla vita, anzi) che, pur essendo molto tassato (nelle sigarette le accise arrivano anche al 60%), non ha visto ridurre i suoi consumi che anzi in alcune fasce, per esempio tra i giovani, sono in aumento.
Appare evidente che la tassazione della carne e del latte non è sicuramente una via percorribile. La soluzione al problema può essere dovuta a più azioni sinergiche, come una costante e corretta informazione delle popolazioni, con la finalità di creare dei consumatori consapevoli, e la promozione di consumi alternativi alla carne e al latte come i legumi (fagioli, piselli, ceci, fave, lenticchie, soia, ecc.) e gli insetti. Questi ultimi, il cui consumo è molto sponsorizzato dalla FAO, saranno in futuro l’alternativa ecosostenibile, e ricca di proteine nobili, alla carne.
Quali sarebbero i reali benefici per il nostro pianeta se si consumasse meno carne e latte? Sarebbero tanti. Sicuramente si avrebbe la riduzione delle emissioni di gas climalteranti (soprattutto di CO2 e di metano) e di conseguenza dell’effetto serra. Si avrebbero però anche altri benefici ambientali:
- riduzione dei liquami (feci e urine) prodotte dagli animali che vanno adeguatamente smaltite perché sono altamente inquinanti e anche di complessa e costosa depurazione;
- riduzione dell’impronta idrica, cioè dei consumi di acqua per allevare gli animali. Basti pensare che mangiare una bistecca di carne o due hamburger equivale al consumo di acqua a persona per circa 7-10 docce;
- riduzione della deforestazione, attuata non per creare nuovi pascoli (attualmente la stragrande maggioranza degli animali sono allevati in ambienti confinati: allevamenti intensivi) bensì per creare nuove aree agricole da destinare alla coltivazione di vegetali (soprattutto di cereali e leguminose) da dare agli animali sotto forma di foraggi, insilati e granella;
- riduzione dello sfruttamento del suolo, in quanto circa due terzi delle produzioni agricole sono destinate all’alimentazione degli animali allevati per produrre carne e latte;
- riduzione dell’inquinamento da fitofarmaci e da concimi di sintesi adoperati per le colture da destinare agli animali.
Si avrebbero dei benefici anche per la salute umana? Sicuramente sì, ovviamente a seguito dei minori impatti ambientali sopra citati, ma anche per il ridotto consumo di carne e finanche per la diminuzione dei casi di antibiotico resistenza. Quest’ultimo fenomeno non è dovuto al solo abuso o non corretto uso degli antibiotici che molti di noi attuano, ma anche alle non corrette pratiche medico-veterinarie attuate in alcuni allevamenti intensivi. C'è un dato che sicuramente farà molto riflettere: nel 2014 in Italia ci sono stati circa 3380 decessi per incidenti stradali e 5 mila morti per infezioni. Morire d’infezione, nella maggioranza dei casi, significa che gli antibiotici attuali non hanno fatto effetto. Questi numeri dovrebbero far capire quanto è pericolosa l’antibiotico resistenza.
Per ridurre i gas serra, in America stanno studiando le cosiddette 'mucche del futuro'. Può essere una soluzione? Le 'vacche pulite' sono un progetto, in parte anche voluto da Barak Obama, che nacque nel 2014 negli USA. L’idea prevede la somministrazione alle vacche di una specifica dieta atta a ridurre le emissioni di gas serra. Premesso che ogni animale ha una sua specifica anatomia e fisiologia che gli permette di meglio adattarsi all’ambiente naturale in cui dovrebbe vivere, va specificato che le vacche sono dei ruminanti e che in quanto tali sono provviste di quattro stomaci (rumine, omaso, abomaso e reticolo), ognuno dei quali adempie a una specifica funzione, ma che nell’insieme si può affermare che, grazie alle fermentazioni microbiche anaerobiche che avvengono (operate da batteri e protozoi), riescono a digerire la cellulosa e l’emicellulosa contenuta nei vegetali in sostanze che successivamente diverranno anche carne e latte.
Insomma, le vacche sono delle macchine perfette per digerire e assimilare i vegetali di cui si nutrono però tutto ciò ha un prezzo: la formazione di gas (soprattutto anidride carbonica e metano) che viene liberato dall’esofago e per flatulenza. Attualmente la maggior parte dei bovini allevati vengono alimentati attraverso il cosiddetto 'pasto unico' (UNIFEED) che prevede la somministrazione di tutti i componenti della razione giornaliera (miscelati tra loro: foraggi, granella, integratori, ecc.) in un’unica erogazione. Alterare questa 'macchina perfetta' attraverso un’alimentazione sicuramente poco naturale mi sembra una forzatura, per non dire una coercizione, sugli animali. Insomma, vogliamo ridurre i gas serra senza diminuire il numero di bovini ma rendendo loro la vita ancora più innaturale. A noi esseri umani proprio non ci riesce di fare qualche sacrificio: siamo risoluti nel ridurre il gas serra però vogliamo continuare a mangiare tanta carne.
Personalmente sono pienamente d’accordo nel migliorare l’alimentazione delle vacche, ma senza mai snaturare le loro funzionalità. In altre parole bisognerebbe eliminare la quota di gas dovuto a condizioni patologiche (per esempio a disturbi gastrointestinali) generate dall’alimentazione industriale atta a migliorare le performance produttive (rapido ingrasso ed elevata produzione di latte) ed eliminare lo stress.
In realtà, per far sì che le vacche producano meno gas serra basterebbe che tornassero a una alimentazione sana e naturale come quella dei pascoli e che si riducesse loro lo stress tipicamente generato dagli allevamenti intensivi. Questo, però, non piace 'all’uomo' perché ridurrebbe di molto le performance produttive.
Ridurre il consumo di carne, indipendentemente dalla sua tassazione, potrebbe farci bene oppure no? Senza entrare nel merito di disquisizioni ricorrenti tra vegetariani, vegani e onnivori (da qualcuno definiti 'carnivori'), che lascio ad altri professionisti e ambienti, va detto che la carne, in quanto tale, non è dannosa per la salute umana, ma sicuramente lo è il suo eccesso come per qualunque altro alimento. Un consumo di carne moderato, nell’ambito di una dieta varia ed equilibrata e accompagnato da uno stile di vita sano (costante attività fisica, niente fumo e pochissimo alcol), non ha alcuna controindicazione. Non a caso nello stile di vita mediterraneo, che tutto il mondo ci invidia, un po’ di carne c’è.
Non dimentichiamoci che la carne, come anche i prodotti ittici e quelli caseari, sono un’ottima fonte di tanti principi nutritivi ma soprattutto della vitamina B12 (Cobalamina), sostanza essenziale in quanto il nostro corpo non è in grado di produrla (ed è assente nei vegetali), utilissima per mantenere efficienti le cellule nervose, i globuli rossi e il sistema immunitario. Per far sì che il consumo di carne non sia un rischio per la salute bisognerebbe evitare le carni trasformate, spesso ricche di conservanti pericolosi (nitrati, nitriti, ecc.), e stare attenti a come la cuciniamo. Alcune tecniche culinarie, se mal gestite, possono infatti determinare la formazione di sostanze tossiche o cancerogene: con la frittura si può generare l’Acroleina, con la cottura alla brace si possono formare l’Acrilammide (genotossica), gli IPA (alcuni dei quali sono Interferenti Endocrini) e le Amine Eterocicliche (cancerogene). Insomma bisogna evitare la “carne fobia”, ma al contempo moderarne i consumi per tutelare la propria salute e per ridurre l’effetto serra.
* Luciano Oscar Atzori è biologo, esperto in sicurezza degli alimenti e in tutela della salute e divulgatore scientifico.